Nove condanne per la «mafia di Campofranco». Altri tre imputati sono stati assolti e, due di loro, pure scarcerati. Nel gran calderone qualche parziale assoluzione e l’aggravante mafiosa che non ha retto per episodi riferiti a tentate estorsioni. Così al processo di primo grado legato all’indagine dei carabinieri «Antiqua»
La pena più severa, con 23 anni di carcere in continuazione con altre sentenze del 2006, del 2016 e dello scorso anno, è stata comminata al sessantaduenne Angelo «fungiddra »Schillaci (assistito dall’avvocato Antonio Impellizzeri), che dopo avere scontato due condanne per mafia aveva riconquistato la libertà il 24 ottobre del 2022, un anno e mezzo prima del blitz «Antico Vallone» messo a segno dai carabinieri.
A seguire l’altra condanna più rigorosa, con 17 anni di reclusione a fronte dei venti chiesti dal pm, è stata pronunciata nei confronti del sessantatreenne Claudio Rino «spatuzza» Di Leo (assistito dall’avvocato Dino Milazzo) ritenuto uomo di fiducia del boss campofranchese e che si sarebbe occupato degli affari sporchi legati a pizzo e droga, ma si sarebbe pure prestato alla conservazione delle armi.
Sono 9 gli anni – contro i quattordici anni e otto mesi domandati dall’accusa – per il quarantacinquenne Calogero Schillaci (assistito dall’avvocato Antonio Impellizzeri) nipote del capomafia, che sarebbe stato pronto a raccogliere le redini della famiglia in caso di arresto dello zio e di Di Leo. Alla moglie, la trentaduenne Carmeliana Schillaci (assistita dall’avvocato Antonio Impellizzeri), sono stati inflitti 2 anni, 2 mesi e 20 giorni – quattro anni e sei mesi voleva l’accusa – per una tentata estorsione ai danni del gestore di una pompa di benzina, perché non avrebbe voluto pagare un rifornimento da 73 euro.
Il sessantasettenne di Casteltermi, Vincenzo Spoto (assistito dall’avvocato Carmelo Amoroso) ne è uscito con 8 anni e 6 mesi di carcere – mentre il pm di anni ne aveva sollecitati sedici – per un presunto carico di 22 chili di marijuana e una tentata estorsione.
Sono 8 gli anni e 4 i mesi per il cinquantacinquenne di Milena, Gioacchino «Iachino» Cammarata (assistito dall’avvocato Giuseppe Bongiorno) – che rischiava dieci anni e otto mesi- già condannato per mafia ma prendendo in esame, in quel primo processo, un arco temporale che s’è fermato a metà dicembre del 2005. E da quel momento in poi, secondo i contenuti dell’inchiesta, avrebbe gestito le estorsioni in paese.
Pena a 3 anni per il cinquantatreenne, pure lui di Milena, Paolino Giuseppe Santo Schillaci (assistito dagli avvocati Pietro Sorce e Maria Vizzini) – la procura ne chiedeva sei di anni – che a Milena si sarebbe occupato di “messa a posto”.
E chiude il quadro degli imputati condannati con il rito abbreviato dal gup Emanuela Carrabotta, il licatese quarantaduenne Calogero La Greca (assistito dall’avvocato Salvatore Graci) con 5 mesi e 10 giorni perché accusato di favoreggiamento.
Mentre è con il rito ordinario che è stato riconosciuto colpevole per tre dei quattro episodi di spaccio che gli sono stati contestati, il cinquantaduenne di Campofranco, Fabio Giovenco (assistito dall’avvocato Daniela Salamone) e ne è uscito con un anno e 4 mesi di reclusione.
Il giudice, inoltre, ha condannato Cammarata, Di Leo, i quattro Schillaci e Spoto al risarcimento dei danni in favore della «Associazione rete per la legalità Sicilia – Associazioni e fondazioni contro il racket e l’usura- coordinamento regionale» e, in più, soltanto Angelo, Calogero e Paolino Giuseppe Santo Schillaci, Cammarata e Di Leo a indennizzare le parti civili, Carmelo Grasso, Silvana Urso e Chiara Grasso.
Assolti e subito scarcerati il cinquantunenne di Casteltermini Gian Luca Lamattina (assistito dall’avvocato Daniela Salamone ) – per lui erano stati chiesti sei anni – che era stato tirato in ballo per una tentata estorsione e il settantatreenne campofranchese, Calogero Maria Giusto Giuliano (assistito dagli avvocati Giuseppe Dacquì e Giuseppe Scozzari) – il pm aveva sollecitato otto anni – che era stato accostato alla mafia per un suo colloquio con Calogero Schillaci intercettato durante le indagini, ma che in realtà non avrebbe avuto proprio nulla a che fare con “cosa nostra”. Tant’è che dopo la lettura del dispositivo, in aula, è scoppiato in un pianto liberatorio stretto nell’abbraccio di moglie e figlio.
Assolto pure, così come aveva prospettato lo stesso pm Stefano Strino, il quarantacinquenne di Sommatino Luigi Cocita (assistito dall’avvocato Giovanni Salvaggio).
Erano accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsione e tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso, spaccio di droga e armi.
Secondo lo spaccato tracciato dagli inquirenti questa operazione avrebbe dato scacco alla mafia di Campofranco che si stava riorganizzando dopo la scarcerazione di Angelo Schillaci.
Ma sarebbe stata una “famiglia”, che secondo l’accusa, si stava sì ricostituendo ma con non poche difficoltà. Dolendosi non solo per la mancanza di denaro, ma anche per la scarsa disponibilità di armi.








